Me.
- Matteo Gatti
- 11 lug 2016
- Tempo di lettura: 7 min

Checché se ne dica non esiste una sola via nella vita. Non esiste alcuna certezza, e mai e poi mai si può dire che quel che sei e ciò in cui credi sarà cosa per sempre immutabile. E' ben semplice definirsi forti, dir che le convinzioni rimarranno sempre quelle e dir che i propri gusti, anche quelli ovvi, una volta modellati, saranno impossibili da scalfire.
“Che cosa vuoi fare da grande?” è una domanda che ai bambini viene chiesta spesso, e diciamocelo, chi non ha mai risposto con lavori improbabili, affascinanti, ma, al tempo stesso, ai più, irraggiungibili? Perché quando si è piccoli il mondo non lo si conosce, indipendentemente dall'ambiente famigliare, semplice o arduo, con il quale si è cresciuti. Un bambino è sempre un bambino, e, per quanto precoce possa essere, non potrà mai avere una chiara idea di quel che sarà il mondo degli adulti. Tutti i bambini, nel proprio cuore, coltivano un sogno impossibile.
Non ho mai conosciuto nessuno che, sin dall'infanzia, avesse risposto con professioni del tipo: psicologo, cuoco, scienziato, insegnante, scrittore. Da piccoli i maschi vogliono fare i calciatori, oppure divenire famosi in altri sport, le femmine, anche se non ricordo bene... credo le ballerine (?!). Che poi, non ho mai capito perché tutti dicessero che i maschi, il più delle volte, avessero come sogno quello di fare gli astronauti... un lavoro effettivamente emozionante.
Che cosa risposi io da piccolo? Il calciatore, naturalmente. Non ero un bambino dalle idee originali, ma uno che amava solo giocare al pallone. Mi vedevo rincorrere quella palla e sognavo di fare numerosi goal, ricevendo apprezzamenti e pacche sulla spalla. Ecco tutto. Questo era il mio sogno da bambino.
Poi quando ti scontri contro quella dura roccia chiamata realtà, giusto quando la smetti di sentirti il più forte, di credere di aver quel qualcosa in più degli altri, oltre all'amarezza del tutto, capisci che la vita, quella vera, non è fatta di scatti, dribbling e tiri in porta, che quell'esistenza che hai sempre sognato è destinata a pochi, quelli nati per far quello. E tu sei uno degli innumerevoli puntini neri che sta in disparte, che se la sa cavare al gioco del calcio, ma che mai potrà andar oltre. Ai più capita di cadere dal trespolo e farsi male, di schiena, solitamente, e tutti quelli sono puntini in un foglio nero, gocce di un oceano. Quindi arrivi a un punto in cui devi scegliere del tuo futuro, in cui apri per davvero gli occhi e ti chiedi: “Qual è il mio posto nel mondo? Cosa mi piace per davvero fare?” Davanti alle mille scelte sarà poi così semplice? Per uno che ha pensato al calcio come proprio futuro, o per uno che ha pensato al successo tramite il proprio talento precoce, no, non lo è affatto.
E se tutto questo ti pare scontato, ti sembrano tutti paragrafi incastrati tra loro di frasi fatte, beh, perché, in fondo, non ci hai pensato prima?
Questa non è un'autobiografia.
A 21/22 anni non può esistere un'autobiografia.
Questa è solo una delle innumerevoli storie buttate lì a caso, senza alcuno studio alle spalle.
Fondamentalmente non sapevo che fare di me, né della mia vita, e mai ci avevo pensato più di tanto fin quando non ne fu necessario, un po' come con la tesina della maturità, come lo studio per la maturità e come tutta la maturità in generale.
Delle tante tappe da me passate non ne voglio parlare, perché non c'è nulla da dire, perché sarebbe come raccontare una barzelletta imbarazzante e perché non importerebbe a nessuno.
Dell'immagine che vedete come copertina di questo post posso solo dire che è sia la mia realtà attuale che quella di un passato remoto.
Quand'ero un piccolo imbecille, degli innumerevoli che ne esistevano, sempre meno degli attuali, oltre al sogno di fare il calciatore, ne avevo un altro. Un tipico sogno da bambino di nove anni (circa) che pensa tutto sia possibile e arriva al punto tale da convincersi in maniera esponenziale per poi fare una brutta fine in maniera drastica, picchiando il capo violentemente. Un po' come quando credevi in Babbo Natale, scrivevi la lettera colma di geroglifici, ti convincevi che sarebbe arrivata al Polo Nord senza nemmeno imbucarla (oh, nasce tutti i giorni un cretino, non è vero?), gioivi quando quella spariva, per poi, due dì dopo, ritrovarla in un cassetto che il destino ti ha sussurrato di aprir senza motivo, giusto per farti crollare l'infanzia addosso! Nah!
Va bene, la smetto...
Avevo davvero circa nove anni quando vidi per la prima volta Dragon Ball in maniera consapevole capendoci qualcosa. E come in ogni bambino rimasi affascinato da quegli eroi svolazzanti che avrebbero potuto distruggere il mondo solo con il pensiero, a tal punto da rivedermi in uno di loro e sognare, la notte, di sconfiggere un nemico.
Quel pensiero nel corso degli anni successivi è sempre rimasto. Ovviamente non riuscii mai a lanciar onde energetiche o a volare, ma dentro di me continuavo a pensare a una storia tutta mia, con dei protagonisti valorosi tutti miei. A volte capitava che non me ne ricordassi proprio, altre volte ci pensavo, e rivedevo quel bambino di circa nove anni, quel piccolo cretino tanto sognatore quanto inconsapevole di come tutto quello non sarebbe mai potuto esser realtà.
Quindi crebbi, mi scontrai contro quella clamorosa verità chiamata vita, dimenticandomi quasi totalmente di quella storia plasmata nel corso della mia gioventù, e vivendo la scuola come un normale studente. Optai per l'alberghiero, per far pasticceria, per far quello che credevo sarebbe stato il mio certo e unico futuro lavoro, convincendomi che di via nella vita ne esisteva una sola, e che tale era stata da me consapevolmente imboccata.
Eppure, per quanto possa pur provar a negarlo, a volte, nel corso dei miei sei anni di superiori (perché la frenesia e l'emozione della bocciatura dovevo farle mie), seppur molto raramente, mi capitava, ascoltando la musica, di ripensare a quel sogno che da bambino avevo, cretino o meno che fossi. Era davvero bello tornar indietro con la mente di anni e anni ancora, testando su me stesso i sogni che avevo da piccolo. E spesse volte mi immaginavo immagini di quella storia, che da tempo viveva dentro me, e che l'avrebbe fatto ancora.
Capii che di strade nella vita ne esistono diverse quando, senza motivo, mi misi d'impegno per provar ad allenarmi in vista del tema d'italiano presente alla maturità. Nei temi facevo davvero schifo, ma le cose dall'estate della quarta, quando feci un breve corso di recupero migliorarono.
Quindi in quel giorno di maggio di ormai due anni fa, chiedendomi cosa avrei voluto provar a scrivere, non ci pensai troppo, e mi gettai con tutte le mie forze verso la scrittura di qualche paginetta inerente a quella storia da me concepita dieci anni prima, se non più.
Quando arrivai al tema, senza rendermene conto, scrissi molto bene. Presi un bel voto. Ma se c'è una cosa, una sola, che mi ha fatto continuare a scrivere, ancor più dell'ottimo risultato, è stato il commento della professoressa esterna, che mi sbatté in faccia senza pietà: “Beh, potevi far meglio”. Cosa che mi fece infuriare al momento, perché, dopotutto, io, che prendevo sempre quattro, in una materia che detestavo, veder quel voto era un vero e proprio miracolo.
Un anno dopo è venuto al mondo “The Kupicker”: un libro... Parola che ancor adesso mi mette i brividi solo a pronunciarla. Venne alla luce quella storia da me pensata per la prima volta a nove anni. Un racconto per filo e per segno che rispecchiasse quel che quel piccolo bambino era stato. Trattata in maniera più matura, ovviamente, ma quello è.
“The Kupicker” è quel bambino di nove anni.
Ogni volta che ci penso mi rivedo a quell'età. E fu proprio per questo motivo che decisi di dividere la storia in tre parti. Perché ne ho bisogno. Ancora oggi.
Poi a Dicembre arrivò “C'era una volta la tua vita”, uno step totalmente diverso, che ancora mi mette un po' di timore. Perché è terribilmente scritto meglio, terribilmente folle e incredibilmente affascinante. Dietro al quale c'è uno studio vero e proprio, uno schema, delle idee ben concepite e buttate su carta. Eppure non so se lo pubblicherò, e il motivo principale è perché... non so che effetto possa fare sulla gente. Non è una storia strana, e nemmeno una a sfumature horror. E' una storia semplice, normale, normalissima, e penso sia questo il problema.
Non molto tempo fa, giusto qualche mese, per via di un evento non programmato, mi resi conto che, a oggi, a 21 anni, fare il pasticciere e lavorare per dodici ore al giorno senza sosta, non fa per me. Mi sento in grado di far altro, di poter dar di più. E non voglio rinunciare nella maniera più assoluta alla scrittura. Veramente, non ce la posso fare. Voglio che scrivere sia il mio lavoro, la mia vita, ed è per questo che l'Università sarà la mia prossima tappa. Nel bene o nel male.
Avete presente quando senza ragione venite colpiti da una cosa che non pensavate potesse esistere? Della quale ignoravate l'esistenza? Ecco, a me è recentemente successo. Ma non starò qui a dire di che si tratta perché l'ho già fatto. Però mi ha aperto gli occhi, l'ha fatto da un punto di vista diverso, che mai avevo calcolato, ma che, al contempo, condividevo. E non si tratta di Pokémon Go.
Sono arrivato al punto di concepire consapevolmente di quanto la scrittura sia a me importante per dar qualcosa agli altri. Per cercare di dar qualcosa a questo mondo (che è anche la frase che ho spesso ripetuto nei mini-racconti dello scorso anno). Scrivere un libro dopotutto significa aver fatto, aver dato alla luce un qualcosa che vivrà oltre chi l'ha creata. Perché i miei libri resteranno, bene o male, sulla Terra anche quando sarò morto. Indipendentemente da quando accadrà e dal fatto che potrebbe non leggerli nessuno. Ed è questa la sostanziale differenza dall'ambito alberghiero. Scrivere significa far evadere le persone dalla solita realtà e farle accedere a un altro mondo, affiancandole ai protagonisti, agli antagonisti, alla storia in sé. Facendo loro provar emozioni.
E vivere di un lavoro che può ispirare altra gente, che può far sì che queste persone riescano a star bene in maniera differente, e che le faccia emozionare, non è la cosa più bella al mondo?
Questo è quello che volevo dire. So che è un post venuto peggio degli altri, ma ora come ora, mentre il progetto del sequel di “The Kupicker” sta andando avanti con passi decisi, era cosa giusta da fare.
Se oggi mi venisse posta la domanda: “Che cosa vuoi fare da grande?”, io risponderei: “Lo scrittore!” E se mi venisse chiesto il perché, la mia risposta non potrebbe altro che essere: “Perché quel bambino di nove anni ne ha ancora bisogno”.
Quindi non abbiate il timore di cambiare la vostra vita, di dar qualcosa a questo mondo, nonché alla gente tramite la cosa che amate fare. E fate sì che qualcosa di quel che farete vivrà oltre voi, come un figlio.
Checché se ne dica non esiste una sola via nella vita.
WXW
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